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Un sogno chiamato : Jean-Claude Van Damme

Posted on Luglio 14, 2008 in the Strapower! category

Jean-Claude Van Damme

Jean-Claude Van Damme
Nome: Jean-Claude Camille François Van Varenberg
48 anni, 18 Ottobre 1960 (Bilancia), Berchem-Sainte-Agathe (Belgio)

Intervista a Jean-Claude Van Damme

Cominciamo dal principio…
Nessun problema! Sono nato alla periferia di Bruxelles il 18 ottobre del 1960, nome di battesimo: JeanClaude Van Varenberg. Segno: Bilancia.
Figlio d’arte?
Non direi proprio: mio padre gestiva un negozio di fiori e in precedenza era stato tabaccaio, anche se nutriva e nutre tuttora una grande passione per il cinema. Ma i miei genitori non hanno avuto nulla a che fare con la mia scelta di diventare una star d’azione. Anzi! Ricordo che papà mi ripeteva spesso di non sognare a occhi aperti: come diavolo potevo io, un ragazzo belga, sperare di sfondare nel cinema?! Hollywood era così lontana e non parlavo nemmeno inglese.


Quanto è stato difficile per un tipo di belle speranze venuto dal Belgio ritagliarsi un posto al sole nel cinema americano?
Molto difficile! A Bruxelles, dove sono nato e cresciuto, ho studiato arti marziali, danza, pittura e musica classica, ma il mio interesse principale era irrobustire il fisico con dosi massicce di body building. Ero un bambino miope e con un fisico malaticcio. Tuttavia non potevo certo dar sfogo alla mia passione per il cinema rimanendo lì; così ho venduto tutto: la macchina, la casa, la palestra, che mi rendeva benissimo, e così via, ho messo il ricavato in banca (caso mai le cose mi fossero andate male col cinema potevo sempre tornare in Belgio e riaprirmi una palestra), e me ne sono andato in America, dove ho cominciato da zero nel senso più letterale del termine. Non avevo un’agenzia, un ufficio stampa, amicizie o semplici conoscenze che potessero servirmi come punto di avvio. Mi ero portato solo duemila dollari, con i quali andai avanti per anni.
Sembra la classica favola del poveraccio dotato solo di volontà…
Lo è stata, per me. Tra i lavori che ho svolto ci sono stati quelli di autista privato, buttafuori, tappezziere, insegnante di ballo e arti marziali. Certe volte, per placare i morsi della fame, mi riempivo lo stomaco d’acqua. Per qualche tempo feci anche il posteggiatore di un ristorante frequentato da gente del cinema, e quando me la passavo proprio male, dormivo dentro le macchine. Ricordo che lasciavo la mia foto col numero di telefono infilata nei tergicristalli delle automobili più importanti, sperando in una chiamata per un provino.
Ma se non sbaglio avevi già fatto qualcosa in Europa…
Prima di allora avevo avuto solo una particina in un film francese intitolato Rue Barbare, poi un’altra in un filmetto intitolato Monaco Forever, ma non potevo coltivare il mio sogno restando in Europa. Chiunque voglia davvero fare il grande cinema non può rimanersene a casa, deve andare a Hollywood, perché è lì che c’è il vero business. Comunque, il mio sogno è sempre stato quello di essere un attore, non solo di arti marziali. Al Pacino è per me un mito, darei qualsiasi cosa per lavorare con lui.
Serve più cuore o faccia di bronzo, per «sfondare»?
Cuore. In America e pieno di bei tipi muscolosi che pensano bastino fisico e irruenza per farcela, ma non è così. Se fossi entrato nell’ufficio di un produttore, anche dopo i primi ingaggi, facendo mostra solo dei muscoli e di presunzione, mi avrebbero risposto: «Quella è la porta!». Ci vuole cuore, passione, per mollare tutto quello che hai e volare in America.
Quando precisamente hai deciso di tentare di diventare una star, e soprattutto perché dei film di arti marziali?
Be’, entrambe queste domande hanno una sola risposta: Bruce Lee! Lo adoravo, vedevo e rivedevo i suoi film, soprattutto 13 dell’Operazione Drago.
A chi lo dici…
Andavo al cinema col mio amico Michel Qissi (che anni dopo chiamai a girare Kickboxer, nel ruolo di Tong Po). Michel veniva in palestra con me, poi, nel buio della sala cinematografica, sognavamo di diventare come Bruce Lee… Per questo, oltre a praticare i pesi nella palestra di Claude Goetz, il mio insegnante, studiavo anche lotta greco-romana e più tardi il karate contact. Ho partecipato a diverse gare, ma più che la carriera sportiva mi interessava il cinema.
Il tuo successo personale è perfettamente in sintonia col più classico stereotipo: il «Sogno Americano»…
È vero, la fantasia a volte è superata dalla realtà: sai come ebbi il primo ruolo da protagonista? Ero in un ristorante con degli amici e vidi entrare Menahem Golan, il capo della Cannon, che avevo incontrato già al Mifed di Milano nel 1980, quando cominciai i primi passi nel cinema. Allora gli avevo dato le mie foto e il biglietto da visita e lui mi aveva assicurato che, se fossi andato in America, mi avrebbe fatto lavorare. Bene, ora in America mi ci trovavo, ma tutti mi sbattevano le porte in faccia. Incluso Golan: chissà quanti, come me, si erano presentati da lui pieni di bei sogni. Così, quando me lo trovai davanti al ristorante, gli diedi una breve dimostrazione di quel che so fare nelle arti marziali. Gli sferrai un calcio laterale sopra la testa e lui rimase molto impressionato. Mi disse di chiamarlo per un appuntamento al suo ufficio. Qundo ci andai, feci una lunga anticamera e solo alla fine mi ricevette: entrai, presi due sedie e ci feci una spaccata sagittale sopra. Mostrai il mio fisico: gli dissi che con me poteva fare un sacco di soldi e che costavo poco, ma che ero il migliore! Ero il nuovo Chuck Norris (che all’epoca era il divo numero uno della Cannon). Golan si fece portare il copione di un filmetto che avevano in preparazione: Bloodsport. E voilà: il ruolo era mio!
Il film uscì in Italia come Senza esclusione di colpi?
Sì. Costò molto poco, incassò solo negli Stati Uniti cinquanta milioni di dollari e rilanciò il filone del karate. In seguito uscirono i film più ricchi con Steven Seagal e gli altri. E pensare che Golan non era nemmeno troppo convinto: il film ebbe una gestazione lunga e faticosa e rimase parecchiofermo prima di trovare una distribuzione. Poi fu un exploit in tutto il mondo. Aveva molte analogie con 13 dell’Operazione Drago, e non erano casuali. Era un po’ un omaggio al filone. Comunque sapevo che era un filmetto di serie B, nella trama, nella regia e nei mezzi, ma da qualche parte dovevo pur iniziare. Quando uscì, ero io la vera sensazione della pellicola, non certo la storia o la qualità. A Hong Kong incassò molto di più di The Running Man- L’implacabile, 1987, di Paul Michael Glaser, sceneggiatura di Steven E. De Souza, con Schwarzenegger. Da un momento all’altro divenni il cocco di mamma di Menahem Golan. E pensare che se fosse stato per lui nemmeno sarebbe uscito. Non ne era convinto, lo lasciò nel cassetto per un pezzo. Dovetti rimontarlo io, affiancando il montatore, per convincere Golan a farlo uscire. Passò un anno e mezzo, tra l’ultimo ciak e l’uscita nelle sale.
In quel film combattevi contro Bolo Yeung, un nome di riferimento, del filone, perché aveva lavorato con Bruce Lee…
Era fantastico! Siamo molto affezionati: Bolo, a dispetto del suo fisico mastodontico e della faccia da killer, è una brava persona. Era grande amico di Bruce Lee. Benché abbia quarantacinque anni, è in forma splendida, tale che sembra lo stesso dei tempi di Bruce. Siamo affiatati sul set, per questo sono stato lieto di averlo anche in Double Impact. Il suo vero nome è Yang Sze, un campione di culturismo a Hong Kong, poi girò più di cento film di kung fu, ma pubblico se lo ricorda soprattutto come il «Bolo» del film con Bruce Lee. E adesso come mio avversario sullo schermo.
A proposito di cinesi: tu hai esordito come «cattivo» , in un film hongkonghese del 1986, Kickboxers: vendetta personale. Che ricordo ne hai?
Quello fu un filmetto terribile! Sai quanto guadagnai? 2.500 dollari! Bussai anche lì a tutte le porte: a Jackie Chan, alla Golden Harvest… I film-makers cinesi hanno uno stile incredibile nel realizzare le scene d’azione: pochi effetti speciali e un sacco di stuntmen che saltano dappertutto. Poi sono tornato a Hong Kong per un film da protagonista con John Woo.
L’autore di The Killer…
Un capolavoro! Woo è uno dei registi migliori di Hong Kong, considerato il «poeta della violenza», come Sam Peckinpah. Hard Target, il film che girai con lui, era un thriller d’azione assolutamente fantastico, nello stile dei grandi successi di Woo, e a Los Angeles, dove c’è stato uno screening test per vedere le reazioni del pubblico, a metà della proiezioni la gente era in piedi a urlare ed eccitarsi per le azioni dei protagonisti. Questo test ci ha convinto di avere tra le mani un asso: John Woo è una persona formidabile e molto intelligente, che si diverte a sembrare stupida per tastare il terreno. Quando parla con gli americani e qualcosa non gli piace risponde sempre «No compriendo», e invece ha capito tutto!
Infatti pare che molti cineasti hollywoodiani copino in segreto le scene d’azione dei film hongkonghesi…
È logico, sono i più bravi del mondo! Guarda Jackie Chan… Mi sarebbe piaciuto lavorare con lui all’epoca in cui ero a Hong Kong. Mi disse che mi avrebbe chiamato, ma non lo fece.
Parliamo di Accerchiato, uno dei tuoi film più atipici…
Una produzione low-budget, ma che rappresenta un cambio di pagina nella mia carriera, in quanto si allontana dal solito cliché del semplice eroe esperto di arti marziali. È la storia di un uomo solo, con dei sospesi con la legge, che fugge e casualmente conosce una famigliola che ha dei problemi molto seri. Si affeziona ai bambini e riscopre una parte di se stesso che aveva dimenticato. La famiglia è minacciata da un boss edilizio che vuole espandersi e impadronirsi di ogni terreno e, naturalmente, il nuovo arrivato interverrà a modo suo.
Ricorda Il cavaliere della valle solitaria…
Non a caso: si ispira proprio a quel film. È una storia molto semplice, classicheggiante, nello stile di quei vecchi western americani (anche se il film è ambientato ai giorni nostri). Come ho detto, la mia ambizione è la recitazione, non solo l’azione.
Cosa ne pensi dei tuoi colleghi?
Ognuno fa il suo lavoro ed è il pubblico, alla fine, che ti premia. Di sicuro non vorrei mai lavorare con qualcuno che non voglia lavorare con me. Stimo molto Àrnold Schwarzenegger, che è partito da Gratz, in Austria, ed è diventato una stella mondiale. È uno dei miei modelli, unitamente a Bruce Lee. Quando facevo gavetta allenavo personalmente Chuck Norris, sperando in una possibilità di affermarmi, ma poi mi resi conto che Norris non si sarebbe mai creato un concorrente con le sue mani, e capii che dovevo farcela da me. A quell’epoca tiravo a campare facendo comparsate nei film della Cannon, tipo Missing in Action e Breakin’. Norris mi promise che mi avrebbe dato delle opportunità, e per questo andai nelle Filippine per Missing in Action, ma una volta lì non c’era altro da fare se non lo stuntman. Così me ne tornai indietro. Non gli serbo rancore: quando sei una star ci sono molte persone che ti girano intorno sperando in un aiuto. Di sicuro gli dispiaceva di non avermi potuto aiutare di più, perché vide coi suoi occhi che ero un tipo vigoroso e determinato e come me la passavo male.
Molti divi d’azione diventano anche registi di se stessi. E così arriviamo a The Quest.
Volevo girare un grande film in costume sulle arti marziali: un’avventura epica, come se ne facevano nella vecchia Hollywood. Inoltre ero un grande fan di Roger Moore dai tempi di 007. Per questo lo volli nel cast.
Non ti spaventava tanta responsabilità?
Non avevo paura di misurarmi nella regia, perché già in Senza esclusione di colpi e Lionheart ho girato da me, coreografato e montato le scene di arti marziali, anche se contrattualmente non avevo nome nei credits in questa veste.
Hai intenzione di allontanarti definitivamente dal film d’azione, più in là nel tempo?
No, mai! Innanzitutto perché sono ancora giovane e ho ancora molto da dare, così come ho ancora molto da imparare per migliorarmi… L’action movie non morirà mai, piuttosto potrà cambiare, evolversi: molti attori sono emersi negli ultimi anni. Ricordo il povero Brandon Lee.
Sono ancora scioccato: lo intervistai proprio a Roma, poco prima che partisse per quel set da dove non è più tornato…
Era una promessa del cinema: è morto in modo incredibile e misterioso, come suo padre.
Nemmeno su Bruce Lee si saprà mai la verità.
La voce che gira a Hollywood è che avesse iniziato a fare uso di droghe. Dicono che ce lo avesse introdotto Steve McQueen.
Non credo che un fanatico della forma fisica come Bruce Lee potesse arrivare a morire per droga…
lo nemmeno, comunque sono voci che circolavano. Bruce Lee amava molto la vita: l’amava così tanto da morirne. Brandon è stato ucciso. A Hollywood si vocifera su una maledizione che incombe su Lee. Chissà…
Comunque Bruce resta il capostipite incomparabile del cinema Kung-fu.
Sicuramente, anche se, al contrario della maggior parte della gente, io penso che si intendesse più di cinema che non di arti marziali: aveva il look, era un genio nel suo campo e sapeva come farsi valorizzare dalla macchina da presa. Lo adoro.
Steven Spielberg ha predetto che il cinema prima o poi finirà, sostituito dall’home-video e dalla televisione: tu che dici?
Può darsi, anche se spero di no: ma per me non sarebbe un problema, perché nell’home-video i miei film sono una vera bomba!
Conosci il cinema italiano?
Adoro i vostri western. Mi piaceva quella coppia formata da Bud Spencer e da quell’altro attore più magro, biondo… come si chiamava?
Terence Hill.
Sì, lui! Mi piaceva proprio, aveva un grande look.
Prima di chiudere volevo chiederti qualcosa riguardo a quella sfida che ti lanciò Don «The Dragon» Wilson…
Oh, non c’è molto da dire. Il suo produttore, Roger Corman, fece pubblicare un annuncio nel quale mi sfidava per centomila dollari a combattere contro Wilson, sul ring. Sostenevano che fossi un campione fasullo. In realtà sono stato «Mister Belgio» nei pesi medi e ho partecipato a delle competizioni di light contact, piazzandomi bene e vincendo nei «kata». La mia carriera agonistica è documentabile, ma a me interessava il cinema. Quella di Wilson era solo una trovata pubblicitaria. Io non devo dimostrare nulla a nessuno.
Andando a ritroso, ci sono alcuni tuoi film che non riesco a capire: Cyborg, per dirne uno.
Non me ne parlare, era un filmaccio! Dovevo farli perché ero sotto contratto con la Cannon. Anche se nel frattempo Bloodsport mi aveva lanciato, come ti ho detto ci volle molto prima che uscisse e io avevo moglie e figli da mantenere. La prima volta che mi sono sposato avevo diciott’anni.
Capisco, ma in Aquila Nera avevi un ruolo da coprotagonista, mentre l’eroe era Sho Kosugi. Eppure è stato girato dopo Senza esclusione di colpi…
Sì, ma prima che uscisse nelle sale. Stesso problema. Quindi non ero ancora una star e inoltre, come ti ho detto, avevo un contratto da rispettare. Dopo di che, ho avuto ingresso libero alle major di Hollywood e una maggiore voce in capitolo sui ruoli.
Le voci sui difficili rapporti con Dolph Lundgren in I nuovi eroi erano una trovata pubblicitaria o no?
Be’, diciamo che lavorare con Lundgren non è facile. Comunque tra i miei film passati Lionheart è quello che sento di più: perché il protagonista era come me, un ragazzo solo che va in America armato unicamente di cuore e arti marziali. Molte di quelle difficoltà economiche lo ho patite pure io, venivano dal mio vissuto.
E penso che questo messaggio sia stato percepito dal pubblico. Ma questi «Kumite», per strada e nei vicoli, esistono davvero?
Sì, anche se il cinema li esagera. A Hong Kong, dove sono nati, furono un’usanza segreta per secoli, finché le autorità inglesi li misero al bando. Ma molti li proseguono in segreto ancora oggi, tra scuole o stili rivali. Frank Dux, il maestro alla cui vita si ispirava Senza esclusione di colpi, ne vinse diversi.
È lui ad aver coreografato il film?
No, ci siamo allenati per mesi prima delle riprese, ma poi sul set ho fatto molto da me.
Come ci si sente ad avercela fatta inseguendo un sogno?
È fantastico, ma bisogna sudare. Il successo non è mai una passeggiata: occorre talento, passione e anche un pizzico di fortuna. Come diceva Bruce Lee, non esiste nessuna qualità che possa sostituire quella di essere l’uomo giusto al momento giusto. Bruce è stato per me un esempio: faceva piccoli film, ma guardava la qualità, le sue scene d’azione erano incredibili! Se non fosse morto chissà dove sarebbe arrivato. Credo che se fosse ancora vivo, né io né Arnold Schwarzenegger o Sylvester Stallone saremmo stati alla sua altezza.
Da Il cinema secondo Van Damme, pp. 87-97, Castelvecchi editore, Roma 2000

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